Davanti alla porta dell'officina
l'operaio s'arresta di scatto
il bel tempo l'ha tirato per la giacca
e come egli si volta
e osserva il sole
tutto rosso tutto tondo
sorridente nel suo cielo di piombo
strizza l'occhio
familiarmente
Su dimmi compagno Sole
forse non trovi
che è piuttosto una coglionata
offrire una simile giornata
a un padrone?
I ragazzi che si amano si baciano in piedi
Contro le porte della notte
E i passanti che passano li segnano a dito
Ma i ragazzi che si amano
Non ci sono per nessuno
Ed è la loro ombra soltanto
Che trema nella notte
Stimolando la rabbia dei passanti
La loro rabbia il loro disprezzo le risa la loro invidia
I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno
Essi sono altrove molto più lontano della notte
Molto più in alto del giorno
Nell'abbagliante splendore del loro primo amore
Questo amore
Cosi violento
Cosi fragile
Cosi tenero
Cosi disperato
Questo amore
Bello come il giorno
E cattivo come il tempo
Quando il tempo è cattivo
Questo amore cosi vero
Questo amore cosi bello
Cosi felice
Cosi gaio
E cosi beffardo
Tremante di paura come un bambino al buio
E cosi sicuro di sé
Come un uomo tranquillo nel cuore della notte
Questo amore che impauriva gli altri
Che li faceva parlare
Che li faceva impallidire
Questo amore spiato
Perché noi lo spiavamo
Perseguitato ferito calpestato ucciso negato dimenticato
Perché noi l'abbiamo perseguitato ferito calpestato ucciso negato dimenticato
Questo amore tutto intero
Ancora cosi vivo
E tutto soleggiato
E tuo
E mio
E stato quel che è stato
Questa cosa sempre nuova
E che non è mai cambiata
Vera come una pianta
Tremante come un uccello
Calda e viva come l'estate
Noi possiamo tutti e due
Andare e ritornare
Noi possiamo dimenticare
E quindi riaddormentarci
Risvegliarci soffrire invecchiare
Addormentarci ancora
Sognare la morte
Svegliarci sorridere e ridere
E ringiovanire
Il nostro amore è là
Testardo come un asino
Vivo come il desiderio
Crudele come la memoria
Sciocco come i rimpianti
Tenero come il ricordo
Freddo come il marmo
Bello come il giorno
Fragile come un bambino
Ci guarda sorridendo
E ci parla senza dir nulla
E io tremante l'ascolto
E grido
Grido per te
Grido per me
Ti supplico
Per te per me per tutti coloro che si amano
E che si sono amati
Sì io gli grido
Per te per me e per tutti gli altri
Che non conosco
Fermati là
Là dove sei
Là dove sei stato altre volte
Fermati
Non muoverti
Non andartene
Noi che siamo amati
Noi ti abbiamo dimenticato
Tu non dimenticarci
Non avevamo che te sulla terra
Non lasciarci diventare gelidi
Anche se molto lontano sempre
E non importa dove
Dacci un segno di vita
Molto più tardi ai margini di un bosco
Nella foresta della memoria
Alzati subito
Tendici la mano
E salvaci.
Nasce a Neuilly-sur-Seine nel 1900 ed è uno dei poeti francesi più popolari del XX secolo. Giovanissimo conosce André Breton, Raymond Queneau e i surrealisti ed entra a far parte di questo gruppo, interessato dall'arte populista. Nel 1928 si discosta da questi e frequenta il Groupe Octobre, una compagnia teatrale di sinistra.
La sua fama è però dovuta alla produzione poetica, dove Prévert dà libero corso all'immaginazione insolita in uno stile vicino alla lingua parlata e alla vita quotidiana. I suoi temi preferiti sono l'amore, la libertà, il sogno e la fantasia, la compassione, l'umorismo, la satira contro i potenti, l'avversità per l'oppressione sociale.
Tra le sue raccolte di versi di maggiore successo, Parole (1945), La pioggia e il bel tempo (1955), Alberi (1976); in Italia sono state pubblicate, oltre a queste, varie antologie come Le foglie morte (dal titolo di una sua celebre poesia), Poesie d'amore e Poesie.
Muore a Parigi nel 1977.
È come una marea, quando lei fissa su me
i suoi occhi neri,
quando sento il suo corpo di creta bianca e mobile
tendersi e palpitare presso il mio,
è come una marea, quando lei è al mio fianco.
Disteso davanti ai mari del Sud ho visto
arrotolarsi le acque ed espandersi
incontenibilmente
fatalmente
nelle mattine e nei tramonti.
Acqua delle risacche sulle vecchie orme,
sulle vecchie tracce, sulle vecchie cose,
acqua delle risacche che dalle stelle
s'apre come una rosa immensa,
acqua che va avanzando sulle spiagge come
una mano ardita sotto una veste,
acqua che s'inoltra in mezzo alle scogliere,
acqua che s'infrange sulle rocce,
e come gli assassini silenziosa,
acqua implacabile come i vendicatori
acqua delle notti sinistre
sotto i moli come una vena spezzata,
o come il cuore del mare
in una irradiazione tremante e mostruosa
È qualcosa che dentro mi trasporta e mi cresce
immensamente vicino, quando lei è al mio fianco,
e come una marea che s'infrange nei suoi occhi
e che bacia la sua bocca, i suoi seni, le mani.
Tenerezza di dolore e dolore d'impossibile,
ala dei terribili
che si muove nella notte della mia carne e della sua
come un'acuminata forza di frecce nel cielo.
Qualcosa d'immensa fuga,
che non se ne va, che graffia dentro,
qualcosa che nelle parole scava pozzi tremendi,
qualcosa che, contro tutto s'infrange, contro tutto,
come i prigionieri contro le celle!
Lei, scolpita nel cuore della notte,
dall'inquietudine dei miei occhi allucinati,
lei, incisa nei legni del bosco
dai coltelli delle mie mani,
lei, il suo piacere unito al mio,
lei, gli occhi suoi neri,
lei, il suo cuore, farfalla insanguinata
che con le due antenne d'istinto m'ha toccato!
Non sta in questo stretto altopiano della mia vita!
È come un vento scatenato!
Se le mie parole trapassano appena come aghi
dovrebbero straziare come spade o come aratri!
È come una marea che mi trascina e mi piega,
è come una marea, quando lei è al mio fianco!
Qui ti amo.
Negli oscuri pini si districa il vento.
Brilla la luna sulle acque erranti.
Trascorrono giorni uguali che s'inseguono.
La nebbia si scioglie in figure danzanti.
Un gabbiano d'argento si stacca dal tramonto.
A volte una vela. Alte, alte stelle.
O la croce nera di una nave.
Solo.
A volte albeggio, ed è umida persino la mia anima.
Suona, risuona il mare lontano.
Questo è un porto.
Qui ti amo.
Qui ti amo e invano l'orizzonte ti nasconde.
Ti sto amando anche tra queste fredde cose.
A volte i miei baci vanno su quelle navi gravi,
che corrono per il mare verso dove non giungono.
Mi vedo già dimenticato come queste vecchie àncore.
I moli sono più tristi quando attracca la sera.
La mia vita s'affatica invano affamata.
Amo ciò che non ho. Tu sei cosi distante.
La mia noia combatte con i lenti crepuscoli.
Ma la notte giunge e incomincia a cantarmi.
La luna fa girare la sua pellicola di sogno.
Le stelle più grandi mi guardano con i tuoi occhi.
E poiché io ti amo, i pini nel vento
vogliono cantare il tuo nome con le loro foglie di filo metallico.
Corpo di donna, bianche colline, cosce bianche,
tu rassomigli al mondo nel tuo atteggiamento d'abbandono.
Il mio corpo di contadino selvaggio ti scava
e fa saltare il figlio dal fondo della terra.
Sono stato solo come una galleria. Da me fuggivano gli uccelli
e in me la notte entrava con la sua invasione possente.
Per sopravvivermi ti ho forgiata come un'arma,
come una freccia al mio arco, come una pietra nella mia fionda.
Ma cade l'ora della vendetta, e ti amo.
Corpo di pelle, di muschio, di latte avido e fermo.
Ah le coppe del petto! Ah gli occhi dell'assenza!
Ah la rosa del pube! Ah la tua voce lenta e triste!
Corpo di donna mia, persisterò nella tua grazia.
La mia sete, la mia ansia senza limite, la mia strada indecisa!
Oscuri fiumi dove la sete eterna continua,
e la fatica continua, e il dolore infinito.
Pseudonimo di Ricardo Neftalí Reyes Basoalto nato a Parral in Cile nel 1904, sicuramente una delle voci più significative del XX secolo. Cominciò a scrivere poesie fin dall'adolescenza. La sua prima raccolta è del 1923 e s'intitola Crepuscolario. Nel 1924 vengono pubblicate le Venti poesie d'amore e una canzone disperata, con le quali Neruda viene riconosciuto come il più famoso giovane poeta dell'America latina. Del 1933 è la raccolta Residenza sulla terra, dove vengono raffigurate immagini disperate di un mondo distrutto dal progresso.
Trascorre un periodo in Spagna all'epoca della guerra civile, dopodiché ritorna in Cile; si iscrive al Partito comunista e viene eletto senatore. Nel 1948, a seguito di un processo politico intentatogli dal presidente del Consiglio Gonzales Videla, è costretto all'esilio. In questi anni difficili scrive Canto generale (1950), dove celebra la storia e la natura dell'America. Vive in Italia tra il 1951 e il 1952, e qui compone I versi del capitano e Le uve e il vento. Nel 1952 torna in Cile e scrive le Odi elementari. Sostiene l'elezione di Salvador Allende e ottiene la carica di ambasciatore del Cile in Francia. Torna in patria nel 1972, dopo aver ricevuto, nel 1971, il premio Nobel per la letteratura e il premio Lenin per la pace, muore a Santiago nel 1973 pochi giorni dopo il colpo di stato di Pinochet, che segna la fine del governo Allende e l'instaurazione della dittatura.
Questa domenica in settembre
non sarebbe pesata così
l'estate finiva più nature
vent'anni fa o giù di lì.
Con l'incoscienza dentro al basso ventre
e alcuni audaci in tasca l’Unità
la paghi tutta, e a prezzi d'inflazione
quella che chiaman la maturità.
Ma tu non sei cambiata di molto
anche se adesso è al vento quello che
io per vederlo ci ho impiegato tanto
filosofando pure sui perché.
Ma tu non sei cambiata di tanto
e se cos'è un orgasmo ora lo sai
potrai capire i miei vent'anni allora?
E i quasi cento adesso capirai?
Portavo allora un eskimo innocente
dettato solo dalla povertà
non era la rivolta permanente
diciamo che non c'era e tanto fa.
Portavo una coscienza immacolata
che tu tendevi a uccidere però
inutilmente ti ci sei provata
con foto di famiglia o paletot.
E quanto son cambiato da allora
e l'eskimo che conoscevi tu
lo porta addosso mio fratello ancora
e tu lo porteresti e non puoi più.
Bisogna saper scegliere il tempo
non arrivarci per contrarietà
tu giri adesso con le tette al vento
io ci giravo già vent'anni fa.
Ricordi? Fui con te a Santa Lucia
al Portico dei Servi per Natale
credevo che Bologna fosse mia
ballammo insieme all'anno o a Carnevale.
Lasciammo allora tutti e due un qualcuno
che non ne fece un dramma o non lo so
ma con i miei maglioni ero a disagio
e mi pesava quel tuo paletot.
Ma avevo la rivolta fra le dita
dei soldi in tasca niente e tu lo sai
e mi pagavi il cinema stupita
e non ti era toccato farlo mai.
Perché mi amavi non l’ho mai capito
così diverso da quei tuoi cliché
perché fra i tanti, bella, che hai colpito
ti sei gettata addosso proprio a me.
Infatti i fiori della prima volta
non c'erano già più nel Sessantotto
scoppiava finalmente la rivolta
oppure in qualche modo mi ero rotto.
Tu li aspettavi ancora ma io già urlavo
che Dio era morto, a monte, ma, però,
contro il sistema anch'io mi ribellavo,
cioè, sognando Dylan e i Provos.
E Gianni ritornato da Londra
a lungo ci parlò dell'Lsd
tenne una quasi conferenza colta
sul suo viaggio di nozze stile freak.
E noi non l'avevamo mai fatto
e noi che non l'avremmo fatto mai
quell'erba ci cresceva tutt'attorno
per noi crescevan solo i nostri guai.
Forse ci consolava far l'amore
ma precari in quel senso si era già
un buco da un amico, un letto a ore
su cui passava tutta la città.
L'amore fatto alla boia d'un Giuda
e al freddo in quella stanza di altri e spoglia
vederti o non vederti tutta nuda
era un fatto di clima e non di voglia.
E adesso che potremmo anche farlo
e adesso che problemi non ne ho
che nostalgia per quelli contro un muro
o dentro a un cine o là dove si può.
E adesso che sappiamo quasi tutto
e adesso che problemi non ne hai
per nostalgia lo rifaremmo in piedi
scordando la moquette, stile e l'hi-fi.
Diciamolo per dire, ma davvero
si ride per non piangere perché
se penso a quella ch'eri, a quel che ero
che compassione che ho per me e per te.
Eppure a volte non mi spiacerebbe
essere quelli di quei tempi là
sarà per aver quindici anni in meno
o avere tutto per possibilità.
Perché a vent'anni tutto è ancora intero
perché a vent'anni è tutto chi lo sa
a vent’anni si è stupidi davvero
quante balle si ha in testa a quell'età.
Oppure allora si era solo noi
non c'entra o meno quella gioventù
di discussioni, «Caroselli», eroi
quel ch'è rimasto dimmelo un po' tu.
E questa domenica in settembre
se ne sta lentamente per finire
come le tante via distrattamente
a cercare di fare o di capire.
Forse lo stan pensando anche gli amici
gli andati, i rassegnati, i soddisfatti
giocando a dire che si era più felici
pensando a chi s'è perso o no a quei patti.
E io che ho sempre un eskimo addosso
uguale a quello che ricorderai
io come sempre faccio quel che posso
domani poi ci penserò, semmai.
Ed io ti canterò questa canzone
uguale a tante che già ti cantai
ignorala come hai ignorato le altre
e poi saran le ultime oramai.
Non so che viso avesse, neppure come si
chiamava, con che voce parlasse, con quale voce poi
cantava, quanti anni avesse visto allora,
di che colore i suoi capelli,
ma nella fantasia ho l'immagine sua:
gli eroi son tutti giovani e belli.
Conosco invece l'epoca dei fatti, qual era il
suo mestiere: i primi anni del secolo, macchinista
ferroviere; i tempi in cui si cominciava
la guerra santa dei pezzenti;
sembrava il treno, anch'esso, un mito
di progresso lanciato sopra ai continenti.
E la locomotiva sembrava fosse un
mostro strano che l'uomo dominava con il pensiero
e con la mano; ruggendo si lasciava indietro
distanze che sembravano infinite,
sembrava avesse dentro un potere tremendo,
la stessa forza della dinamite.
Ma un'altra grande forza spiegava allora
le sue ali, parole che dicevano gli uomini son
tutti uguali; e contro ai re ai tiranni
scoppiava nelle vie
la bomba proletaria e illuminava l'aria
la fiaccola dell'anarchia.
Un treno tutti i giorni passava dalla sua
stazione, un treno di lusso, lontana
destinazione, vedeva gente riverita,
pensava a quei velluti e agli ori,
pensava al magro giorno della sua gente
attorno, pensava a un treno pieno di signori.
Non so che cosa accadde, perché prese
la decisione; forse una rabbia antica, generazioni
senza nome che urlarono vendetta,
gli accecarono il cuore,
dimenticò pietà, scordò la sua bontà,
la bomba sua la macchina a vapore.
E sul binario stava la locomotiva,
la macchina pulsante sembrava fosse cosa
viva, sembrava un giovane puledro
che, appena liberato il freno,
mordesse la rotaia con muscoli d'acciaio,
con forza cieca di baleno.
E un giorno come gli altri, ma forse con
più rabbia in corpo, pensò che aveva il modo
di riparare a qualche torto; salì sul mostro
che dormiva, cercò di mandar via la sua paura
e prima di pensare
a quel che stava a fare,
il mostro divorava la pianura.
Correva l'altro treno ignaro e quasi senza fretta;
nessuno immaginava di andare verso la vendetta,
ma alla stazione di Bologna
arrivò la notizia in un baleno:
notizia d'emergenza,
agite con urgenza,
un pazzo si è lanciato contro il treno.
Ma, intanto, corre corre corre la locomotiva
e sibila il vapore, e sembra quasi cosa viva
e sembra dire ai contadini curvi
il fischio che si spande in aria:
fratello non temere,
che corro al mio dovere,
trionfi la giustizia proletaria.
E corre corre corre corre sempre più forte
e corre corre corre corre verso la morte,
e niente ormai può trattenere
immensa forza distruttrice,
aspetta sol lo schianto
e poi che giunga il manto
della grande consolatrice.
La storia ci racconta come finì la corsa:
la macchina deviata lungo una linea morta;
con l'ultimo suo grido d'animale
la macchina eruttò lapilli e lava
esplose contro il cielo, poi il fumo sparse
il velo; lo raccolsero che ancora respirava.
Ma a noi piace pensarlo ancora dietro
al motore mentre fa correr via la macchina
a vapore, e che ci giunga un giorno
ancora la notizia
di una locomotiva, come una cosa viva,
lanciata a bomba contro l'ingiustizia.
Piccola città, bastardo posto,
appena nato ti compresi, o fu il fato
che in tre mesi mi spinse via;
piccola città, io ti conosco, nebbia e fumo non so darvi il profumo
del ricordo che cambia in meglio;
ma sono qui nei pensieri le strade di ieri,
e tornano visi e dolori e stagioni,
amori e mattoni che parlano.
Piccola città, io poi rividi
le tue pietre sconosciute, le tue case diroccate
da guerra antica;
mia nemica strana, sei lontana coi peccati
fra macerie, e fra giochi consumati dentro al Florida:
cento finestre, un cortile, le voci,
le liti e la miseria; io, la montagna nel cuore,
scoprivo l'odore del dopoguerra.
Piccola città, vetrate viola,
primi giorni della scuola, la parola e il mesto
odore di religione;
vecchie suore nere con che fede in quelle sere
avete dato a noi il senso di peccato, e di espiazione;
gli occhi guardavano voi, ma sognavan gli eroi,
le armi e la bilia;
correva la fantasia verso la prateria
fra la via Emilia e il West.
Sciocca adolescenza, falsa e stupida innocenza,
continenza, vuoto mito americano,
di terza mano;
pubertà infelice spesso urlata a mezza voce,
a toni acuti, casti affetti denigrati,
cercati invano;
se penso a un giorno o a un momento
ritrovo soltanto malinconia;
è tutto un incubo scuro,
un periodo di buio gettato via.
Piccola città, vecchia bambina
che mi fu tanto fedele, a cui fui tanto fedele
tre lunghi mesi;
angoli di strada, testimoni degli erotici
miei sogni frustrazioni e amori a vuoto,
mai compresi;
dove sei ora, che fai, neghi ancora o ti dai
sabato sera?
quelle di adesso disprezzi, o invidi e singhiozzi
se passano davanti a te?
Piccola città, vecchi cortili, sogni e dei primaverili,
rime e fedi giovanili, bimbe ora vecchie;
piango e non rimpiango la tua polvere
e il tuo fango, le tue vite,
le tue pietre, l'oro e il marmo, le catapecchie;
così diversa sei adesso, io son sempre lo stesso,
sempre diverso
cerco le notti ed il fiasco, se muoio rinasco
finche non finirà.
Nasce a Modena il 14 Giugno 1940, anche se dopo alcuni mesi si trasferisce (o meglio, come dice lui stesso, viene portato) a Pavana, in provincia di Pistoia, nella casa dei nonni paterni. La sua è la tipica storia del cantautore poeta. Fino alla fine degli anni Sessanta compone canzoni per altri, alcune divennero celebri grazie all'Equipe 84 (Auschwitz) e ai Nomadi (Dio è morto e Noi non ci saremo). Il suo primo album è del 1967, intitolato Folk beat n° 1, decisamente ispirato dal folk americano, da Bob Dylan e da Georges Brassens.
Guccini, fino al 1985 insegna italiano al Dickinson College di Bologna, ma nel frattempo continua l'attività di cantautore, che nel giro di pochi anni lo porta alla notorietà. La particolarità della sua poesia sta nel riuscire a fondere la sua cultura con la semplicità di un cantastorie da osteria. Il suo amore per l'America e per la sua terra, l'Appennino tosco-emiliano, sono fra i temi dominanti della sua poesia, così come la lotta sociale, che lo vede apertamente schierato politicamente nella sinistra libertaria.
Fra i suoi dischi più conosciuti e più apprezzati è giusto ricordare: Radici, Stanze di vita quotidiana, Metropolis, Via Paolo Fabbri 43 e D'amore, di morte e altre sciocchezze.
Si è dedicato anche alla prosa scritta con il libro: Croniche Epafaniche.
Anche se il nostro maggio
ha fatto a meno del vostro coraggio
se la paura di guardare
vi ha fatto chinare il mento
se il fuoco ha risparmiato
le vostre millecento
anche se voi vi credete assolti
siete lo stessa coinvolti.
E se vi siete detti
non sta succedendo niente,
le fabbriche riapriranno,
arresteranno qualche studente
convinti che fosse un gioco
a cui avremmo giocato poco
provate pure a credervi assolti
siete lo stesso coinvolti.
Anche se avete chiuso
le vostre porte sul nostro muso
la notte che le « pantere »
ci mordevano il sedere
lasciandoci in buona fede
massacrare sui marciapiedi
anche se ora ve ne fregate,
voi quella notte voi c'eravate.
E se nei vostri quartieri
tutto è rimasto come ieri,
senza le barricate
senza feriti, senza granate,
se avete preso per buone
le « verità » della televisione
anche se allora vi siete assolti
siete lo stesso coinvolti.
E se credete ora
che tutto sia come prima
perché avete votato ancora
la sicurezza, la disciplina,
convinti di allontanare
la paura di cambiare
verremo ancora alle vostre porte
e grideremo ancora più forte
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti,
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti.
Quei giorni perduti a rincorrere il vento
A chiederci un bacio e volerne altri cento
Un giorno qualunque li ricorderai
Amore che fuggi da me tornerai
Un giorno qualunque li ricorderai
Amore che fuggi da me tornerai
E tu che con gli occhi di un altro colore
Mi dici le stesse parole d'amore
Fra un mese, fra un anno scordate le avrai
Amore che vieni da me fuggirai
Fra un mese, fra un anno scordate le avrai
Amore che vieni da me fuggirai
Venuto dal sole o da spiagge gelate
Perduto in novembre o col sole d'estate
Fra un mese, fra un anno scordate le avrai
Amore che vieni da me fuggirai
Fra un mese, fra un anno scordate le avrai
Amore che vieni da me fuggirai
Fabrizio De Andrè
Nasce a Genova 1940. Giunge al successo con molta gradualità, anche per il suo carattere riservato e la scarsa propensione alle esibizioni pubbliche. Negli anni Sessanta propone la sua poetica con canzoni poi divenute storiche come La canzone di Marinella (1962), La guerra di Piero (1963), Via del campo (1967) e Bocca di rosa (1967). Per la sua formazione musicale hanno molta importanza cantautori di fama internazionale come Leonard Cohen, Georges Brassens e Bob Dylan, di cui traduce anche alcune canzoni. Nelle sue ballate si trova una costante attenzione per i problemi sociali ed un innegabile impegno politico. De Andrè tocca grandi temi scavando nella storia e nell'anima dei singoli, e raccontando storie di contraddizioni, passioni e sconfitte dà voce ai mille volti della sofferenza.
Significativi della sua opera sono gli album La buona novella (1970), rivisitazione della storia di Gesù attraverso i vangeli apocrifi, e Non al danaro non all'amore né al cielo (1971), ispirata a L'antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters e Storia di un impiegato (1973). La sua produzione successiva è abbondante, ma non per questo meno importante. Vanno ricordati al proposito gli album Rimini (1978), Creuza de mä e Le Nuvole (entrambi del 1990, i due album si pongono come un felice recupero dei dialetti genovese, sardo e napoletano), e Anime salve (1996). Per chiudere, poco prima della sua morte immatura, con la raccolta M'innamoravo di tutto (1998).
Vecchia Maria, stai per morire,
voglio dirti qualcosa di serio:
la tua vita è stata un rosario completo di agonie.
Non hai avuto amore d'uomo, salute e denaro,
soltanto la fame da dividere con i tuoi;
Voglio parlare della tua speranza,
delle tre diverse speranze
costituite da tua figlia senza sapere come.
Prendi questa mano d'uomo che sembra di bambino
tra le tue levigate dal sapone giallo.
strofina i tuoi calli duri e le pure nocche
contro la morbida vergogna delle mie mani di medico.
Ascolta, nonna proletaria:
credi nell'uomo che sta per arrivare
credi nel futuro che non vedrai.
Non pregare il dio inclemente
che per tutta la vita ha deluso la tua speranza.
E non chiedere clemenza alla morte
per veder crescere le tue grigie carezze;
i cieli sono sordi e sei dominata dal buio,
su tutto avrai una rossa vendetta,
lo giuro sull'esatta dimensione dei miei ideali
tutti i tuoi nipoti vivranno l'aurora,
muori in pace vecchia combattente.
Stai per morire vecchia Maria,
trenta progetti di sudario
ti diranno addio con lo sguardo
il giorno che te ne andrai.
Stai per morire vecchia Maria
rimarranno mute le pareti della sala
quando la morte si unirò all'asma
e consumerò il tuo amore nella tua gola.
Queste tre carezze fuse nel bronzo
(l'unica luce che rischiara la tua notte)
questi tre nipoti vestiti di fame,
sogneranno le nocche delle tue vecchie dita
in cui sempre trovavano un sorriso.
Questo sarò tutto, vecchia Maria.
La tua vita è stata un rosario di agonie,
non hai avuto amore d'uomo, salute, allegria,
soltanto la fame da dividere coi tuoi.
E' stata triste la tua vita vecchia Maria.
Quando l'annuncio dell'eterno riposo
velerò di dolore le tue pupille,
quando le tue mani di sguattera perpetua
riceveranno l'ultima ingenua carezza,
penserai a loro. . . e piangerai,
povera vecchia Maria. No non lo fare !
Non pregare il dio indolente che per tutta una vita
ha deluso la tua speranza
e non domandare clemenza alla morte,
la tua vita ha portato l'orribile vestito della fame
e ora, vestita di asma, volge alla fine.
Ma voglio annunciarti,
con la voce bassa e virile delle vendette,
voglio giurarlo sull'esatta
dimensione dei miei ideali.
Prendi questa mano d'uomo che sembra di bambino
tra le tue levigate dal sapone giallo.
strofina i tuoi calli duri e le pure nocche
contro la morbida vergogna delle mie mani di medico.
Riposa in pace vecchia Maria,
riposa in pace vecchia combattente,
i tuoi nipoti vivranno nell'aurora
LO GIURO !
Siamo realisti, esigiamo l'impossibile
Le uniche battaglie perse sono quelle che non si combattono.
O siamo capaci di sconfiggere le opinioni contrarie con la discussione, o dobbiamo lasciarle esprimere. Non è possibile sconfiggere le opinioni con la forza, perché questo blocca il libero sviluppo dell'intelligenza.
Non sono un libertador. I libertadores non esistono. Sono i popoli che si liberano da sé.
Fino a quando il colore della pelle non sarà considerato come il colore degli occhi noi continueremo a lottare.
Siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia, commessa contro chiunque, in qualsiasi parte del mondo. E' la qualità più bella di un buon rivoluzionario....
Nasce a Rosario in Argentina nel 1928, da una famiglia borghese progressista. A soli quattordici anni vede sua madre torturata in una prigione di Peron.
Dopo essersi laureato in medicina, va in Guatemala per combattere in difesa del regime democratico del presidente Arbenz.
Nel 1956, in Messico, incontra Fidel e Raul Castro. Con loro sbarca a Cuba, dandosi alla macchia. Dopo tre anni di guerriglia, "Che" e Fidel Castro entrano all'Avana spodestando il dittatore Fulgencio Batista.
Dopo la rivoluzione, diventa direttore della Banca Nazionale cubana e Ministro dell'Industria, dando vita ad una rapida industrializzazione dell'isola. Questa sua opera incontra alcuni insuccessi e gli attira diverse critiche, ma dopo una battuta d'arresto, sarà ripresa con unanime consenso.
Nel 1964 va a Pechino, Hanoi e in Africa. Nel 1965 scompare, divenendo una specie di "primula rossa" della Rivoluzione: la sua presenza viene segnalata in vari paesi dell'America Latina e poi, sempre con maggior insistenza, in Bolivia.
Sulla sua testa viene messa una taglia di 50.000 pesos. Nell'Ottobre del 1967, il "Che", che porta il nome di battaglia di Ramon, viene ferito in un'imboscata. Arrestato dai soldati boliviani viene ucciso nel villaggio di Higueras.
Il mito della sua invulnerabilità spinge molti a ritenere che la notizia della sua morte non sia vera. È Fidel Castro, alcuni giorni dopo, a confermare la notizia in una triste commemorazione funebre.
Seppellito con altri compagni a Valle Grande (il luogo era stato stato rivelato solo dopo molti anni da un militare dell'esercito boliviano presente alla cattura del Che), nel 1997 le sue spoglie sono localizzate e disseppellite e quindi traslate a Cuba dove, con grandiosi funerali di stato, vengono tumulate a Santa Clara.
Dopo queste brevi notizie, molti si chiederanno cosa c'entra il "Che" con "Poesie & Poeti"? Semplice. Pur avendo composto versi per passione, non è nelle sue composizioni che si può scoprire la vena poetica di Ernesto Che Guevara, ma nei molti scritti ai famigliari e ai compagni dove si può trovare vera poesia, nel senso che spesso le sue parole nascono dall'anima, lanciando messaggi profondi che solo quest'arte riesce a dare.
I suoi scritti più celebri sono sicuramente quelli tecnici e militari, come ad esempio: "La guerra per bande" e "La guerra di guerriglia". La sua poetica, invece, si scopre maggiormente nei suoi diari, tra cui il celebre "Diario di Bolivia", nelle sue lettere e nei suoi discorsi.
La bufera che sgronda sulle foglie
dure della magnolia i lunghi tuoni
marzolini e la grandine,
(i suoni di cristallo nel tuo nido
notturno ti sorprendono, dell'oro
che s'è spento sui mogani, sul taglio
dei libri rilegati, brucia ancora
una grana di zucchero nel guscio
delle tue palpebre)
il lampo che candisce
alberi e muro e li sorprende in quella
eternità d'istante - marmo manna
e distruzione - ch'entro te scolpita
porti per tua condanna e che ti lega
più che l'amore a me, strana sorella, -
e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere
dei tamburelli sulla fossa fuia,
lo scalpicciare del fandango, e sopra
qualche gesto che annaspa...
Come quando
ti rivolgesti e con la mano, sgombra
la fronte dalla nube dei capelli,
mi salutasti - per entrar nel buio.
Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre.
Un freddo cala... Duro il colpo svetta.
E l'acacia ferita da sé scrolla
il guscio di cicala
nella prima belletta di Novembre.
Poi che gli ultimi fili di tabacco
al tuo gesto si spengono nel piatto
di cristallo, al soffitto lenta sale
la spirale del fumo
che gli alfieri e i cavalli degli scacchi
guardano stupefatti; e nuovi anelli
la seguono, più mobili di quelli
delle tua dita.
La morgana che in cielo liberava
torri e ponti è sparita
al primo soffio; s'apre la finestra
non vista e il fumo s'agita. Là in fondo,
altro stormo si muove: una tregenda
d'uomini che non sa questo tuo incenso,
nella scacchiera di cui puoi tu sola
comporre il senso.
Il mio dubbio d'un tempo era se forse
tu stessa ignori il giuoco che si svolge
sul quadrato e ora è nembo alle tue porte:
follìa di morte non si placa a poco
prezzo, se poco è il lampo del tuo sguardo
ma domanda altri fuochi, oltre le fitte
cortine che per te fomenta il dio
del caso, quando assiste.
Oggi so ciò che vuoi; batte il suo fioco
tocco la Martinella ed impaura
le sagome d'avorio in una luce
spettrale di nevaio. Ma resiste
e vince il premio della solitaria
veglia chi può con te allo specchio ustorio
che accieca le pedine opporre i tuoi
occhi d'acciaio.
Non il grillo ma il gatto
del focolare
or ti consiglia, splendido
lare della dispersa tua famiglia.
La casa che tu rechi
con te ravvolta, gabbia o cappelliera?
sovrasta i ciechi tempi come il flutto
arca leggera - e basta al tuo riscatto.
I turbini sollevano la polvere
sui tetti, a mulinelli, e sugli spiazzi
deserti, ove i cavalli incappucciati
annusano la terra, fermi innanzi
ai vetri luccicanti degli alberghi.
Sul corso, in faccia al mare, tu discendi
in questo giorno
or piovorno ora acceso, in cui par scatti
a sconvolgerne l'ore
uguali, strette in trama, un ritornello
di castagnette.
E' il segno d'un'altra orbita: tu seguilo.
Discendi all'orizzonte che sovrasta
una tromba di piombo, alta sui gorghi,
più d'essi vagabonda: salso nembo
vorticante, soffiato dal ribelle
elemento alle nubi; fa che il passo
su la ghiaia ti scricchioli e t'inciampi
il viluppo dell'alghe: quell'istante
è forse, molto atteso, che ti scampi
dal finire il tuo viaggio, anello d'una
catena, immoto andare, oh troppo noto
delirio, Arsenio, d'immobilità...
Ascolta tra i palmizi il getto tremulo
dei violini, spento quando rotola
il tuono con un fremer di lamiera
percossa; la tempesta è dolce quando
sgorga bianca la stella di Canicola
nel cielo azzurro e lunge par la sera
ch'è prossima: se il fulmine la incide
dirama come un albero prezioso
entro la luce che s'arrosa: e il timpano
degli tzigani è il rombo silenzioso
Discendi in mezzo al buio che precipita
e muta il mezzogiorno in una notte
di globi accesi, dondolanti a riva, -
e fuori, dove un'ombra sola tiene
mare e cielo, dai gozzi sparsi palpita
l'acetilene -
finché goccia trepido
il cielo, fuma il suolo che t'abbevera,
tutto d'accanto ti sciaborda, sbattono
le tende molli, un fruscio immenso rade
la terra, giù s'afflosciano stridendo
le lanterne di carta sulle strade.
Così sperso tra i vimini e le stuoie
grondanti, giunco tu che le radici
con sé trascina, viscide, non mai
svelte, tremi di vita e ti protendi
a un vuoto risonante di lamenti
soffocati, la tesa ti ringhiotte
dell'onda antica che ti volge; e ancora
tutto che ti riprende, strada portico
mura specchi ti figge in una sola
ghiacciata moltitudine di morti,
e se un gesto ti sfiora, una parola
ti cade accanto, quello è forse, Arsenio,
nell'ora che si scioglie, il cenno d'una
vita strozzata per te sorta, e il vento
la porta con la cenere degli astri.
Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.
Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto
alberi case colli per l'inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi; fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
UNA DELLE PIU' FAMOSE POESIE DI MONTALE
Nasce a Genova nel 1896 e nell'ambiente ligure, passando lunghi periodi a Monterosso nelle Cinque Terre, trascorre la sua giovinezza. Da questo paesaggio (l'arsura del meriggio, la salsedine, l'agave) derivano immagini ricorrenti nella sua prima raccolta di versi, Ossi di seppia, pubblicata a Torino nel 1925. Nel 1927 si trasferisce a Firenze dove, nel 1929, diventa direttore del Gabinetto Viesseux, incarico da cui fu destituito nel 1938 per non aver accettato di aderire al fascismo. Nel periodo fiorentino pubblica la raccolta Le occasioni (1938) e si dedica alle traduzioni poi raccolte, nel 1948, in Quaderno di traduzioni.
Dopo la guerra entra nella redazione del Corriere della Sera. Nel '56 esce La bufera ed altro, dove la storia entra nel suo messaggio poetico, e la raccolta di brevi prose autobiografiche intitolata Farfalla di Dinard. La sua attività poetica ha un periodo d'interruzione, ma riprende in occasione della morte della moglie, nel 1966, con i versi di Xenia, poi confluiti in Satura nel 1971.
La sua produzione, che sviluppa una coerente e risentita ricerca dell'autentico dalla consapevolezza del male di vivere, e l'illusione di una speranza da occasionali "incontri", segna uno dei momenti più alti della poesia novecentesca. Nel 1975 riceve il premio Nobel per la letteratura e in quell'occasione presenta il memorabile discorso E' ancora possibile la poesia? Muore a Milano il 12 Settembre 1981.
PERCHE' REALIZZARE UN' OPERA QUANDO E' COSI' BELLO SOGNARLA SOLTANTO?
L'opera maggiore di Boccaccio è il Decameron (iniziato nel 1349 e portato a termine nel 1351), raccolta di cento novelle inserite in una cornice narrativa comune che prende le mosse da un tragico fatto storico. Per sfuggire alla peste del 1348, che aveva ucciso il padre e numerosi amici dello scrittore, un gruppo di dieci amici si rifugia in una villa fuori Firenze. Sette donne e tre uomini trascorrono dieci giornate (da cui il titolo dell'opera) intrattenendosi vicendevolmente con una serie di racconti narrati a turno. Un personaggio alla volta è infatti eletto re della giornata, con il compito di proporre un argomento che gli altri narratori sono tenuti a rispettare. Fanno eccezione a questo schema obbligato la prima e la nona giornata, in cui l'argomento delle novelle è libero. I personaggi hanno nomi allusivi: Panfilo è l'amante fortunato, Lauretta è la gelosa, Filostrato è l'uomo che soffre pene d'amore, e così via. Gli argomenti sono di carattere diverso: ad esempio, nella seconda giornata si raccontano avventure a lieto fine, nella quarta si tratta degli amori infelici, mentre la quinta è dedicata alla felicità che premia gli amanti dopo che hanno superato particolari difficoltà. Ma i temi non sono solo sentimentali: nella sesta giornata si ragiona di motti spiritosi, nell'ottava di scherzi e beffe.
In questi racconti si alternano numerosissimi personaggi, di svariata estrazione sociale (nobili, "borghesi", popolani), laici e religiosi, figure di tutte le età. È un vero e proprio universo ispirato alla realtà soprattutto toscana e fiorentina (con episodi ambientati in altri luoghi d'Italia – a Napoli soprattutto – e in paesi lontani), senza limitazioni né di carattere morale, né culturale. Vi sono infatti nobili e mascalzoni, amanti ingegnosi e uomini poveri di spirito, donne fedeli beffate e spregiudicate figure femminili, personaggi storici e di invenzione. Così, le condotte degli eroi sono ispirate sia a ideali elevati sia a interessi materiali, non ultimo il desiderio sessuale.
Alcuni protagonisti, con le loro storie, sono diventati celebri: basti pensare all'incallito peccatore ser Ciappelletto e alla sua falsa confessione in punto di morte che lo farà considerare santo presso i posteri, oppure alle numerose beffe di cui è vittima Calandrino, agli sproloqui di frate Cipolla che sostituisce alla realtà il suo mondo cialtronesco, oppure alla nobiltà d'animo di Federigo degli Alberighi. Questa straordinaria varietà di ambienti, temi e personaggi non implica, tuttavia, la mancanza di una struttura coerente. Infatti, oltre allo schema della cornice e a quello che regola l'alternarsi delle voci narranti, le corrispondenze sono sia disseminate all'interno dell'opera sia organizzate in una progressione di tipo etico. Dalla prima alla decima giornata si passa cioè dal dominio del vizio al trionfo della virtù, naturalmente in modo non meccanico, e con eccezioni che hanno il compito di variare questa successione di stampo morale. Alla base dell'inventiva di Boccaccio ci sono il gusto per il romanzesco (ma qui, a differenza di altre sue opere, si tratta di un romanzesco impregnato di realismo), l'attrazione verso la vitalità della giovinezza, l'attenzione critica che porta a superare le apparenze, una visione disincantata della vita. Ogni giornata si conclude con una canzone, squisito esempio della lirica boccaccesca, intonata dai personaggi che ballano.
Il Decameron rappresenta il primo e più grande capolavoro in prosa della tradizione letteraria italiana antica, e si distingue per la ricchezza e la varietà degli episodi (che alternano toni solenni e umorismo popolare), per la duttilità della lingua e la sapiente analisi dell'animo umano. Sul piano stilistico si tratta di una prosa decisamente elaborata, tanto che il modo di dire, affermatosi in seguito, "periodare alla certaldese" allude proprio alla struttura spesso molto articolata della frase, modellata sulla sintassi latina. Una prosa che però si dimostra particolarmente duttile, visto che riesce con grande efficacia a rappresentare scene tragiche ed episodi comici, eventi nobili e beffe plebee.
Per questa sua opera Boccaccio attinse a molteplici fonti: i classici greci e latini, il fabliau francese, la letteratura popolare compreso il patrimonio delle fiabe tradizionali, le raccolte di novelle italiane precedenti come il Novellino e le varie traduzioni contaminate delle Mille e una notte. Alla base, però, c'è anzitutto l'acuta osservazione della realtà contemporanea. Il Decameron presenta una nuova idea dell'uomo, non più indirizzato esclusivamente dalla grazia divina ma inteso come artefice del proprio destino, un'idea che anticipa la concezione antropocentrica (l'uomo considerato al centro dell'universo) che sarà elaborata dagli umanisti del Quattrocento. Anche per questo aspetto ideologico il libro segna un punto di svolta rispetto alle tradizioni letterarie consolidate nel Medioevo.
L'infanzia fiorentina (1313 - 1327)
Giovanni Boccaccio nasce in realtà in Toscana, probabilmente a Certaldo (anche se più volte è stata avanzata l'ipotesi dei suoi natali a Firenze) nel 1313, da padre mercante Boccaccino da Chellino, e da madre, si ipotizza di origini umili. Sicuramente nasce fuori dal matrimonio. Boccaccino si sposa con Margherita da Mardoli nel 1319 e un anno dopo nasce il fratellastro Francesco - il matrimonio con Margherita non è probabilmente sentito positivamente dal piccolo Boccaccio, tanto che alcuni critici sostengono un rapporto rancoroso con il padre. Il giovane inizia fin dall'età di sei anni ad apprendere il leggere e lo scrivere, dimostrandosi incline a questa attività, nell' adolescenza Boccaccio studia la letteratura classica, ma soprattutto quella latina, tralasciando di più quella greca, Boccaccio non ebbe un vero e proprio maestro che gli insegnò la letteratura, ma sì formò da solo, grazie alla sua immensa voglia di studiare e di sapere, questo però, gli creò qualche scompenso, infatti non ebbe una formazione letteraria completa.Il padre cerca invano di deviare questa inclinazione letteraria verso la mercatanzia. Mentre Boccaccio iniziava a far progressi e ad appropriarsi della lingua latina, il padre, deciso per il futuro del figlio, lo mandò a Napoli a studiare il mestiere di mercante e di banchiere.
L'adolescenza a Napoli
Andrea del Castagno, Giovanni Boccaccio, Firenze, Galleria degli Uffizi, 1450A Napoli, nel 1327, Boccaccio inizia il suo apprendistato presso la succursale della Compagnia dei Bardi, senza però alcun successo in questo ambito. Dopo circa sei anni di fallimenti, nel 1331 infatti, all'età di diciott'anni, il padre decide dunque di ripiegare su diritto canonico, nella speranza che il figlio possa imparare un mestiere: il maestro di Boccaccio è Cino da Pistoia, noto sia come maestro di diritto, sia come poeta stilnovista. Anche diritto canonico non porta alcun successo: probabilmente infatti Cino da Pistoia eserciterà un maggiore influsso come poeta stilnovista, che come affermato giurista.In questo periodo napoletano lui vive con i nobili e formula su di loro un'ideale che e' lo stesso di Dante che rispecchia gli ideali cortesi.
Boccaccio scriverà nel suo De genealogiis che queste scelte saranno dettate dalla volontà del padre, rammaricandosi di non essere potuto divenire un miglior poeta e scrittore, essendosi dovuto preoccupare di imparare un mestiere a lui odioso; Boccaccio a Napoli conosce un periodo molto bello dovuto alla vita nella corte di Napoli, caratterizzata da sfarzi e ricchezze. Dopo qualche anno però viene richiamato a Firenze dal padre; quest'ultimo infatti subisce un forte tracollo economico a causa del fallimento di alcune banche in cui aveva fatto numerosi investimenti.
Trascorsi questi dodici anni nel tentativo di imparare un mestiere, Boccaccio può finalmente dedicarsi agli studi letterari sotto la guida di alcuni tra i più autorevoli eruditi del tempo, come il bibliotecario e mitologo Paolo da Perugia, l'astronomo Andalò del Negro e i diversi intellettuali della corte angioina.
Dal secondo periodo fiorentino alla morte (1351 - 1375)
In questo periodo Boccaccio rimpiange la vita di corte a Napoli e compone alcune opere come l'Amorosa visione e il Ninfale Fiesolano.
Nel 1360 Innocenzo VI offre a Boccaccio un beneficio ecclesiastico ma i suoi amici cercano di compiere un colpo di stato e quindi non gli vengono più concesse le prebendae. Nel 1361 torna a Certaldo dove rimane fino al 1365 e qui scrive opere in latino di matrice umanistica come la Genealogia Deorum Gentilium ed il Corbaccio scritto in volgare.
Il periodo che va dal 1365 all'anno della sua morte nel 1375 viene denominato "periodo fiorentino-certaldese" dove Boccaccio torna a lavorare per Firenze e cura un'edizione critica delle opere di Dante a cui premette il Trattatello in Laude di Dante. Nel 1370 trascrive un codice autografo del Decameron. Poi commenta e legge in pubblico la Commedia ma non la conclude a causa della sua cattiva salute. E il 21 dicembre del 1375 morì. Sulla sua tomba volle che fosse ricordata la sua passione dominante con la frase: "Studium fuit alma poesis" che significa: sua passione fu l'alma poesia.
Opere
Nella produzione del Boccaccio si possono distinguere le opere della giovinezza, della maturità e della vecchiaia. Ricordiamo tra le opere del periodo toscano Filostrato, Filocolo e Teseida, anche se la sua opera più importante e conosciuta è il Decameron
Busto del Boccaccio presso la Chiesa dei Santi Jacopo e Filippo a Certaldo I protagonisti del Decameron in un dipinto di John William Waterhouse, A Tale from Decameron, 1916, Lady Lever Art Gallery, Liverpool Manoscritto con miscellanea latina, autografo del Boccaccio, Biblioteca Medicea Laurenziana, Firenze
Opere della giovinezza
Tra le sue prime opere vengono ricordate Filocolo (1336-38), Filostrato (1335), Teseida (1339-41), Caccia di Diana (1334/38) e le Rime (la cui composizione rimanda ad anni diversi).
La maturità: il Decameron (1348 - 1353)
Il capolavoro di Boccaccio è il Decameron, il cui titolo fu ricalcato dal trattato Hexameron di sant'Ambrogio. Il libro narra di un gruppo di giovani (sette ragazze e tre ragazzi) che, durante la peste del 1348, si rifugiano sulle colline presso Firenze. Per due settimane, l'«onesta brigata» si intrattiene serenamente con passatempi vari, e in particolare raccontando a turno le novelle. Poiché il venerdì e il sabato non si narrano novelle, queste, disposte in un periodo di dieci giorni come indica in greco il titolo dell'opera (Ta tòn deca emeròn biblìa, ossia I libri (Ta biblìa) delle (tòn) dieci (deka) giornate (emeròn). Per cui la corretta pronunzia del titolo dell'opera è Decameròn - con l'accento tonico grave sull'ultima sillaba, ossia tronco - oppure italianizzato in Decamerone). Quindi il libro è composto da cento novelle.
I nomi dei dieci giovani protagonisti sono: Fiammetta, Filomena, Emilia, Elissa, Lauretta, Neìfile, Pampìnea, Dioneo, Filòstrato e Pànfilo. Ogni giornata ha un re o una regina che stabilisce il tema delle novelle; due giornate però, la prima e la nona, sono a tema libero. L'ordine col quale vengono decantate le novelle durante l'arco della giornata da ciascun giovane è prettamente casuale, ad eccezione di Dioneo (il cui nome deriva da Dione, madre della dea Venere), che solitamente narra per ultimo e non necessariamente sul tema scelto dal re o dalla regina della giornata, risultando così essere una delle eccezioni che Boccaccio inserisce nel suo progetto così preciso e ordinato.
L'opera presenta invece una grande varietà di temi, di ambienti, di personaggi e di toni; si possono individuare come centrali i temi della fortuna, dell'ingegno, della cortesia, dell'amore.
Le novelle sono inserite, come si è detto, in una "cornice" narrativa, di cui costituiscono passi importanti il Proemio e l'Introduzione alla prima giornata, con il racconto della peste, e la Conclusione che offre la risposta dell'autore alle numerose critiche che già circolavano sulla sua opera. La sua originalità ha però avuto seguaci nella storia della letteratura, anche europea, se si considera Geoffrey Chaucer, il quale scrisse i Canterbury Tales (pur incompleto, riprende la struttura del Decameron di Boccaccio). Inoltre nel Seicento Giovan Battista Basile, autore de Lo cunto delli cunti, compose un'opera intitolata Pentamerone, per la struttura formata da cinque giornate e cinquanta storie.
Riguardo alle sue censure, nonostante fosse stato considerato un testo proibito (ciò fin dal 1559), con l'introduzione della stampa il capolavoro del Boccaccio divenne uno dei testi più stampati; intorno al Cinquecento il cardinale Pietro Bembo lo definì il modello perfetto per la prosa volgare.
Dal punto di vista stilistico, presenta un eccellente gioco di simmetrie nel quale rientrano per analogia alcune delle tematiche predilette dal Boccaccio, come per esempio l'amore, la beffa, la fortuna, le peripezie... In particolare già nelle stesse novelle narrate si possono comprendere alcune concezioni dello stesso autore, ma contemporaneamente anche le relazioni tra gli stessi membri della brigata, spesso segnati da interessi amorosi o rivalità. Inoltre le novelle non vengono narrate durante il venerdì e il sabato, mentre nelle altre giornate un re o una regina scelgono il tema sul quale sviluppare delle storie. Come eccezione programmata a tale schema, compare la figura del giovane Dioneo, il quale non è vincolato dal tema proposto per ogni giornata. Infatti l'autore riflette il proprio io, sia su di lui, che su Panfilo e Filostrato (gli altri due ragazzi). I nomi scelti per i ragazzi non risultano nuovi, in quanto compaiono già nelle opere precedenti del Boccaccio.
Opere della vecchiaia
Statua di Boccaccio, Galleria degli Uffizi a FirenzeCorbaccio (o Laberinto d'amore) viene inizialmente datato tra il 1354 e il 1356, calcolando l'età del protagonista (quindi Boccaccio) basandosi sul passo:
« ...E primieramente la tua età, la quale se le tempie già bianche e la canuta barba non mi ingannano, tu dovresti avere li costumi del mondo, fuor delle fasce già sono – degli anni – quaranta, e già sono venticinque cominciatoli a conoscere. »
viene cioè effettuato il calcolo della stesura del Corbaccio sommando quarantuno anni (viene aggiunto un anno perché è l'età alla quale non si è più in fasce) all'anno di nascita di Boccaccio. Il filologo Giorgio Padoan però espone diverse e valide critiche al metodo utilizzato per la datazione dell'opera posticipando al 1365 o 1366 valutando la similitudine con le altre opere di quegli anni, in particolare le Esposizioni sopra la Comedia; a tutt'oggi è ritenuta la datazione più valida.
Riguardo al titolo, il significato di Corbaccio non è mai stato del tutto chiarito, molti studiosi avvalorano la tesi che possa provenire da corvo, viste le molteplici analogie fra l'animale, che prima mangia gli occhi delle proprie vittime per poi cibarsi del cervello, e l'amore che rende prima ciechi e poi privi di senno. A suffragio di questa ipotesi va inoltre menzionato il fatto che ai tempi della stesura del Corbaccio era molto frequente il nesso -rb- in vece di -rv- ed anche nel Corbaccio stesso viene utilizzato il lemma corbo. Altri possibili significati possono essere ricondotti al latino corba-corbis, tra i cui significati vi sono: frusta, scherno, gabbia, giogo; simboli riconducibili alla negativa visione dell'amore nel Corbaccio, anche se però in questo caso ci si aspetterebbe Corbaccia dal momento che corba-corbis è femminile.
La narrazione è incentrata sull'invettiva contro le donne. Il poeta, illuso e rifiutato da una vedova, sogna di giungere in una selva (che richiama il modello dantesco) nella quale gli uomini che sono stati troppo deboli per resistere alle donne vengono trasformati in bestie orribili: il Laberinto d'amore o il Porcile di Venere. Qui incontra il defunto marito della donna che gli ha spezzato il cuore, il quale dopo avergli elencato ogni sorta di difetto femminile, lo spinge ad allontanare ogni suo pensiero da esse lasciando più ampio spazio ai suoi studi, che invece innalzano lo spirito.
Questa satira si basa in particolare sulla concezione medievale (quando addirittura si metteva in dubbio che la donna potesse avere un'anima), e tutto il pensiero giovanile del Boccaccio viene capovolto. La notazione misogina appare in alcuni passi della sua Esposizione sopra la Comedia, ma anteriormente già nella satira VI di Giovenale. Soprattutto nel Decameron, infatti, l'amore era visto al naturale, come forza positiva e incontrastabile e quelle opere stesse erano dedicate proprio alle donne, un pubblico non letterato da allietare con opere gradevoli; ora invece l'amore è visto come causa di degrado e le donne sono respinte in nome delle Muse, emblema di una letteratura più elevata e austera.
Questo capovolgimento è da attribuire in particolar modo ai turbamenti religiosi propri di Boccaccio negli ultimi periodi della sua vita e il trasporto maggiore che egli ebbe per una letteratura di alto livello, i cui destinatari non potevano che essere solo ed esclusivamente dotti.
È importante ricordare anche le opere del Boccaccio in latino: Genealogia Deorum gentilium (1350-1375), Buccolicum carmen (1351-1366), De casibus virorum illustrium (1355-1374), De mulieribus claris (1361-1375), De montibus, silvis, montibus (1355-1374).